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“Repubblica – Palermo”
28.9.2018

   Come riportato dalle cronache, il procuratore nazionale antimafia Cafiero De Rahoha ha espresso comprensibile delusione nel constatare che, alla sua conferenza presso il Teatro sociale di Canicattì (Agrigento) per commemorare i giudici Saetta e Livatino, erano presenti sì e no una quarantina di persone (autorità e forze dell’ordine comprese). Con una battuta amara lo si potrebbe confortare affermando che gli sarebbe potuto finire molto peggio: un teatro pieno di studenti di varia età, distratti e rumoreggianti, dirottati d’ufficio dalle aule scolastiche (scena, o sceneggiata, pietosa cui ho assistito decine di volte in vita mia). Ma su questi episodi non ci si può fermare all’ironia, sia pure con lo scopo di alleggerire la delusione. Più proficuo riflettervi per evitarli in futuro.

   Una prima considerazione che s’impone è che l’incontro con il magistrato è avvenuto nel bel mezzo di un’intera per la “Settimana della legalità” dedicata alla memoria dei giudici Saetta e Livatino. Il cittadino “medio” era stato già invitato, nei giorni precedenti, a una veglia di preghiera, a una fiaccolata, a una celebrazione eucaristica, a un omaggio presso la stele del luogo in cui Livatino è stato assassinato, a una performance di madonnari impegnati a “disegnare la legalità”; la sera stessa del convegno disertato, poi, erano invitatia un recital teatrale; nei giorni successivi, infine, li attendevano una passeggiata per la legalità, un altro convegno su “Con…passione per la Giustizia” e, infine, un omaggio floreale alla tomba di Antonino e Stefano Saetta. Diciamocelo francamente: chi di noi, con tutto l’amore possibile per la causa dell’antimafia, avrebbe potuto onorare tanti appuntamenti concentrati in sei giorni di seguito?
   Si potrebbe obiettare che ciascuno di questi eventi era diretto a “bersagli di pubblico” differenti. Ma questa eventuale obiezione ci suggerisce una seconda considerazione: quando si organizza alle 16,30 un “classico” convegno con saluti istituzionali, moderatore, quattro o cinque illustri esperti che trattano il tema (spesso con più dottrina che capacità di sintesi divulgativa), qual è il profilo di fruitore a cui si pensa? E’ lo studente liceale che dovrebbe mettere da parte i compiti per l’indomani mattina o la casalinga di Voghera impegnata a fare la spesa e a preparare la cena? E’ l’artigiano che dovrebbe chiudere bottega per qualche ora o il bancario appena uscito da sette ore di lavoro? Forse sarebbero più disponibili, in astratto, il disoccupato che passeggia in piazza o il pensionato che gioca a carte al bar; ma, appunto, in astratto, molto in astratto. Non voglio sostenere che convegni più o meno “scientifici” non vadano organizzati (né ancor meno che vadano sostituiti con apparizioni di uomini e donne dello spettacolo resi celebri dal cinema o dalla televisione). Solo che vanno preparati per mesi con piccoli gruppi di studio, di riflessione, di scambi: e, quando alla fine arrivano gli specialisti della tematica affrontata in loco da una classe di studenti o da un’associazione antimafia o da una parrocchia, ci si potrà attendere legittimamente la presenza di quei cittadini che si sono documentati. E di non molti altri.
   L’esperienza ormai pluridecennale mi attesta che se per cinque mesi una ventina di persone si riuniscono settimanalmente per leggere un testo, chiarirselo a vicenda, discuterlo criticamente prima di incontrare l’autore o comunque una figura di rilevante competenza, l’incidenza effettiva per la crescita di una comunità è incommensurabilmente maggiore di un convegno-fungo con centinaia di presenze. Solo che l’amministrazione comunale che può finanziare l’iniziativa, o i mezzi di comunicazione sociale che ne possono evidenziare il rilievo, non se ne accorgono neppure. Sotto le cento presenze, un evento non è un evento. E allora bisogna rassegnarsi: qualche volta la notizia è che ci sono più relatori, portaborse e guardie del corpo che pubblico.
   Comunque l’episodio di Canicattì interroga tutto il movimento antimafia italiano (e, ancora più in generale, le organizzazioni di cittadinanza attiva): nell’epoca del tramonto delle religioni, anche le religioni civili (con i loro riti, linguaggi, sacerdoti istituzionali, cortei…) sono arrivate alla conclusione di un ciclo storico. Con fantasia e coraggio, senza temere le critiche e gli eventuali fallimenti, bisogna sperimentare forme nuove di manifestazione di ideali antichi, anzi perenni. Non è facile, ma – con tutta la cautela suggerita dalle mode populiste – il “popolo” va coinvolto in maniera sempre più rispettosa e responsabilizzante. A torto o a ragione, le “masse” non si lasciano più “mobilitare” da parole d’ordine altisonanti. Se non sono il tifo da stadio né i “mi piace” su Facebook che ci interessano, dobbiamo imparare a comunicare in maniera accessibile, con strategie capillari nel territorio, e soprattutto con timbro di autenticità esistenziale, i principi etico-politici per i quali riteniamo opportuno impegnarci e chiedere impegno. La strada, in questa direzione, è lunga; ma non vedo scorciatoie alternative.
Augusto Cavadi
www.augustocavadi.com

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